Il 3 ottobre del 2013 una imbarcazione libica piena di migranti affondò a circa 800 metri da Lampedusa. I morti accertati furono 368 e circa 20 i dispersi presunti. Fu una delle più gravi catastrofi marittime nel Mediterraneo, che ormai da troppo tempo è divenuto un cimitero per migliaia di essere umani. I superstiti furono 155, di cui 41 minori.

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Da oggi a Bologna c’è un parco pubblico intitolato alla tragedia del “3 ottobre 2013, giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”. Un giardino, incastonato tra le vie di Corticella e Papini nel quartiere Navile, per ricordare quella strage, su cui peraltro, ancora, non è stata fatta luce.
Prima di tutto è stato fatto per i familiari delle vittime, che avranno così un luogo simbolo che ricordi il sacrificio dei loro cari: un luogo della memoria, perché il ricordo di quelle vite spezzate non si perda mai e diventi anzi un monito perché cessino finalmente le politiche che innalzano muri, promuovendo chiusura e respingimento anziché solidarietà e accoglienza, e calpestando i diritti fondamentali di ogni uomo, a cominciare da quello alla vita stessa. E perché, più in generale, si arrivi a costruire un mondo migliore, dove nessuno sia costretto ad abbandonare il proprio paese, la propria casa” a causa di “guerre, dittature, terrorismo, persecuzioni, fame e miseria endemiche, l’assoluta mancanza delle condizioni per uno sviluppo umano”.

Siid Negash, è stato parte attiva nel progetto di intitolazione del parco: “cosa rappresenta? Il futuro, il seme, le piante, perché come diceva Fabrizio De André, dal letame nascono i fiori. Da qualcosa di tragico – prosegue – speriamo che nasca una consapevolezza su questi temi e un ragionamento serio sulle soluzioni concrete da mettere in campo come i corridoi umanitari e un sistema di mobilità governata” a livello Ue.

Se chiedete a Siid che cosa pensi del bisogno dei familiari delle vittime che si faccia chiarezza anche attraverso le inchieste e nelle aule giudiziarie risponde che “è importante individuare le responsabilità, anche di persone che forse potevano prestare soccorso all’imbarcazione e che magari non l’hanno fatto a causa di leggi come la Bossi-Fini. E’ necessario quindi interrogarsi sulle responsabilità delle politiche messe in atto, non solo italiane ma in Europa”. Questo giovane eritreo è convinto che molti dei 368 morti avrebbero potuto essere salvati e che “se si fossero chiamati Giovanni o Francesco o Paola” ci sarebbe cercata fino in fondo la verità ma “si chiamavano invece Yonas o Abraham…”. Familiari delle vittime del naufragio erano presenti alla cerimonia di intitolazione del parco: “alcuni vivono nei dintorni di Bologna, altri sono venuti dalla Svizzera, non volevano mancare”, spiega.

“E’ una bella occasione di incontro anche se stiamo ricordando un episodio tragico, il ricordo deve essere impegno civico nel presente. Bologna è un cantiere meticcio, è una città che vive dell’incontro con gli altri”, sono state le parole del sindaco Virginio Merola, davanti al vicario generale per la sinodalità monsignor Stefano Ottani, al presidente della comunità islamica bolognese Yassine Lafram, Daniela Guccione della chiesa metodista, evangelica e valdese (assente, ma solo per motivi legati a una funzione religiosa ha precisato l’amministrazione, il rabbino capo Alberto Sermoneta).

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